Roma Catalog FUCK YOU ALL 1998

 

At the FUCK YOU ALL show in Rome, the “Museo Laboratorio di Arte Contemporanea” at the University of Rome, “La Sapienza”, published a catalog that was given away for free to the first 1500 people who requested one – no need to say that after an estimated 2000 people showed at the opening , only those that were held in reserve were able to be distributed periodically throughout the rest of the exhibition. It came out really nice, but if you have FUCK YOU HEROES and FUCK YOU TOO already you aren’t really missing anything other than the biography on Glen. (written piece in it’s original Italian below with English translation further down.)

 

‘Prima che tutti dimenticassimo quanto grande sia stata quella stagione creativa, e quanto ancora potrebbe esserlo, ho deciso di raccogliere in una collezione le mie fotografie preferite, (le piú interessanti, se non altro), quelle che anche meglio rappresentano gli ideali dei miei contemporanei. Queta raccolta è per tutti quelli che me l’hanno chiesta, per quelli eventualmente interessati a saperne di piú su queste sottoculture e queste persone, e afinchè i nostri cuori possano vedere, e ricordare, ció con cui siamo tutti venuti al mondo, e spero mai perderemo: lo spirito hard-core della vera integritá.’

GLEN E. FRIEDMAN


GLEN E. FRIEDMAN è oggi considerato uno dei maggiori e più rispettati fotografi americani delle ultime generazioni. Inizia prestissimo la sua attività fotografando, a metá degli anni ’70, i giovani skaters della scena californiana in azione e pubblicando a soli 14 anni le sue prime foto su Skateboarder Magazine.

Le sue foto documentavano gli albori dello skate in quella Dog Town (West Los Angeles) presto divenuta celebre come il fulcro più radicale della scena e dell’evoluzione dello skate, e furono un tramite fortissimo nel portare alla ribalta lo stile rimasto ineguagliato di pionieri quali Jay Adams, Stacy Peralta, Tony Alva o Paul Costantineau.

Essere skaters in quegli anni è piú che praticare uno sport, è uno stile di vita radicale: “you could never find a more aggressive, arrogant, rowdy, perhaps ignorant bunch of people than my friends” dichiara Tony Alva su Skateboarder Magazine “that’s just the way we are, that’s the way we skateboard, that’s the way we talk” . Questi skaters erano l’antitesi dei ragazzini perbene che praticavano gli sports nelle ‘Little Leagues’ ufficiali. Non avevano limiti, non li avrebbero fermati la polizia, i divieti, i cartelli ‘proprietá privata’, tantomeno la paura di farsi male. Non usavano protezioni alcune e interpretavano lo skate come un surf su cui cavalcare onde di cemento.. non era solo questione di stile, era un approccio radicalmente sovversivo alle autoritá e alla vita stessa.

Friedman, skater lui stesso, è parte di questo gruppo e di queste scelte di vita in prima persona: è per lui naturale essere affascinato dallo spirito che li anima, come è giá innata la sua esigenza di cogliere e fermare in un millesimo di secondo tutta l’energia che emanano le loro fluide acrobazie.

La scena skate e l’hardcore punk di quel periodo si muovevano su coordinate assai simili. L’hardcore era un movimento di forte connotazione antiautoritaria, la cui musica divenne parte integrante e trainante nella quotidianitá degli skaters di Dog Town, coinvolgendo quindi anche Friedman: l’identificazione con gli ideali e l’attitudine delle bands che fotografa è pressochè totale. Pubblica in proprio ‘My Rules’ nel 1982; una fotozine dove vengono raccolte per la prima volta tutte le sue foto piú significative: un documento unico nel suo genere, quasi un reportage cronologico dell’esplodere del punk hardcore americano dagli inizi. Firma con le sue foto moltissime copertine di dischi celebri di quella scena, legandosi a piú mandate, per amicizia e condivisione di ideali a bands quali Dead Kennedys, Minor Threat, Fugazi, Bad Brains e Black Flag. Aderisce allo Straight Edge, un fenomeno politico e culturale nato spontaneamente tra i kids di Washington, che promuove un approccio piú conscio, una maggiore integritá, impegno politico e sociale rispetto a forme piú nichilistiche del punk, rifiutando ad esempio clichè consolidati fra le generazioni di ribelli vecchie e nuove quali l’abuso di alcool e stupefacenti.
Alla scena punk hardcore si affiancherà l’esplodere dell’ hip hop, che a partire dalla seconda metà degli anni ottanta travalica i confini del ghetto per entrare direttamente nelle case dell’America bianca.

Friedman riconosce nella carica dirompente di quella musica e nel linguaggio diretto degli mc’s la stessa attitudine sovversiva che possedeva l’hardcore punk.
Nomi quali Run-DMC, Public Enemy, LL Cool J, Ice T. o Beastie Boys, sfonderanno le classifiche con i loro dischi: Friedman è l’autore delle fotografie cui essi legano indissolubilmente la loro immagine pubblica.

‘Most of the people I’ve been shooting over the years all have the same attitude towards anyone that ever tried to tell ’em what to do: fuck you! That’s basically what it is. Skateboarders, punks, hip hop kids, a lot of people don’t realize they all really got a lot of things in common.’  (da un’intervista a G.E.F. su “One World”, primavera 1995)

Public Enemy, per cui realizza la prima foto session e la cover dei primi due album, giá dalla scelta del nome, ribadiscono un approccio alla musica come messaggio, veicolo di idee e, con brani quali ‘Fight the power’, escono allo scoperto con la loro visione del mondo, parlando esplicitamente di rivolta. Nascono in quegli anni etichette come la Def Jam, di cui Friedman sará per anni il braccio fotografico, nascono progetti come il disco dei Lifers Group, interamente registrato nelle carceri americane da un gruppo di ergastolani. La  copertina di quest’ultimo, ancora una volta firmata da Friedman, mostra il volto di Maxwell Melvins, detenuto n.66064, fotografato attraverso un piccolo specchio tenuto dalla mano sporta oltre le sbarre, scatto che si pone degnamente affianco a quello realizzato nel ’75 da Cartier-Bresson nel riformatorio di Leesbury.

In ‘Fuck You Heroes’, il primo libro pubblicato sulla sua opera, come in ‘Fuck You Too’, pubblicato due anni dopo, ogni foto scattata (e poi divenuta celebre), rappresenta un istante di vita, un movimento intenso e vitale, dove chi urla si traforma in un eroe per aver osato, per aver espresso con forza il suo NO. Antitesi degli eroi tradizionali, sono tali perchè cosí li abbiamo visti quando ascoltavamo i loro dischi, perchè hanno aperto e segnato la strada per gli altri e perchè hanno seguito la loro, senza chiedere permesso e scusa a nessuno.

Anche quella di Friedman è un’arte libera, che non chiede scusa e permesso a nessuno. Friedman non ha committenti reali se non lui stesso, la composizione o il soggetto non sono adattati alla richiesta del momento, scatta poco, ritrae sempre solo ciò che lo interessa, lo eccita ed in cui si sente coinvolto in prima persona. Friedman è un vero free-lance, un autodidatta che non ha maestri da superare, le sue pose sono per molti versi più ‘radicali’ di quelle di molta fotografia contemporanea, perchè per lui fotografare significa innanzitutto soddisfare un forte bisogno di naturale affermazione del proprio se e dei propri ideali.

Scrive Benjamin nel suo celebre saggio ‘Sulla Fotografia’ : ‘Una tecnica esattissima riesce a conferire ai suoi prodotti un valore magico che un dipinto per noi non possiede più. Nonostante l’abilità del fotografo, nonostante il calcolo nell’atteggiamento del suo modello, l’osservatore sente il bisogno irresistibile di cercare nell’immagine quella scintilla magari minima di caso, di hic et nunc, con cui la realtà ha folgorato il carattere dell’immagine’. Cosí ci descrive eloquentemente come la fotografia abbia ad un certo punto, ‘scoperto se stessa’, abbia cioè saputo liberarsi dei pericolosi clichè in cui rischiava di sprofondare, e prosegue: ‘La natura che parla all’immagine fotografica è infatti una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente. … Soltanto attraverso la fotografia egli scopre questo inconscio ottico, come attraverso la psicanalisi, l’inconscio istintivo’. Susan Sontag  va oltre: ‘La successiva industrializzazione della tecnologia fotografica non ha fatto che dar corpo a una promessa insita nella fotografia sin dagli esordi: quella di democratizzare tutte le esperienze, traducendole in immagini’. Le fotografie perciò, e qui riprendo in prestito le parole della Sontag, ‘non possono creare una posizione morale’ – specie in quest’epoca di sovraccarico di immagini – ‘ma possono rafforzarla, e anche contribuire a consolidarne una già in via di formazione’: questo è il naturale filo conduttore che lega le foto di Glen Friedman allo sviluppo della fotografia contemporanea. Con questa attitudine onesta nel registrare il vero, senza mistificazioni, (avulso per convincimento ai ‘trucchi del mestiere’) Friedman ha appreso pienamente la lezione dei grandi pionieri della ‘New Vision’, cioè l’attrazione per le forme essenziali, le inquadrature dirette e la messa a fuoco nitida, che sono poi le basi del modernismo fotografico americano, ma segue poi dichiaratamente un suo indirizzo di ricerca individuale e nelle sue foto è sottintesa una carica partecipativa ed emotiva che difficilmente possiamo accludere al campo puro e semplice della ricerca estetica o sperimentale.

Friedman non ha mai fatto molta teoria intorno alla sua opera e tantomeno alla fotografia come arte in generale, si è sempre limitato ad applicarla, a darle le sue forme, le sue idee, a portarla dentro la mischia, dove batte l’energia: ci invita a vedere con i nostri occhi quello che lui vede con i suoi, il mondo filtrato attraverso una lente, spesso un grandangolo, che allarga la visione oltre le possibilitá dell’occhio investendoci di ció che ci sta intorno, attitudine psicologica oltrechè artistica.

Quello che nelle poesis pittoriche si chiama la ricerca del ‘bello’, nel caso di Friedman passa attraverso la realtá, per questo il suo è anche uno stile di vita, un manifesto artistico ed umano. La sua arte ha un marchio di indiscutibile autenticitá, è questo ció che lo rende unico, che rende le sue immagini significative, oltre la loro indiscussa bellezza sensoriale.

‘His work is the antithesis of social landscape documentation, glossy celebrity photography and editorial-driven magazine work. Others have tried to emulate the course of action that Friedman takes. But where those have come from a mass-media observational background, importing celebrity photographers, make-up artists, motor homes, light and generators, to photograph punks, skaters and rappers as models, G.E.F. travels alone, generally uses natural light and takes first person point-of-view shots of peers involved in activity or just hanging out in their own environment’  (C.R.Stecyk III, Introduzione a ‘Fuck You Heroes’, Burning Flags Press, 1994)

Seguiamo dunque il suo sguardo, ‘Jay Adams’, il primo scatto in ordine cronologico di questa mostra e fra le sue prime fotografie pubblicate: G.E.F. ha 14 anni, la tecnica è giá pressochè perfetta, lo stile giá riconoscibile, e anche gli obiettivi sono chiari: vuole comporre in un immagine la forza dinamica dell’azione.

La sua fascinazione per le ‘forme’ non gli permette mai di eliminare completamente la composizione: rimane ineccepibile anche negli scatti più arditi. Una ricerca che parte dal dato reale e si trasfigura nella capacitá di cogliere lo scatto. Il fluido movimento di un adolescente sullo skate ci appare la piú classica espressione di equilibrio, come Paul Costantineau nel cortile della Canion School o Kent Senatore ingrigliato nella ‘turning point ramp’; i Minor Threat di fronte alla Dischord House sono una composizione colta nel reale, uno scatto di un secondo in cui deve essere raccontato tutto.. anche la perfetta simmetria della composizione. Non ci parla di un mondo a parte, è il nostro mondo reale trasfigurato dal suo talento, ora fatto solo di sguardi e espressioni come nei ritratti, ora crudo e violento come per iSouth Central Cartel che ci aspettano al varco, pistole spianate.

Henry Rollins sfonda il piano della superficie, la sua forza e la sua rabbia alzano il volume al massimo intorno a noi; Ice T invece non ci degna di uno sguardo, biglietti da 100 dollari in una mano e pistola dall’altra, stagliato contro un cielo quasi irreale in un’intensitá di squillante saturazione dei colori e Darlene, la sua donna, ci guarda con un atteggiamento di sfida, una bellezza provocatoria e accecante ma un fucile a canne mozze in mano. Un chiaroscuro quasi pittorico nella luce ‘caravaggesca’ dello scatto dei Public Enemy/cover dell’album ‘Yo! Bum rush the show!’ dá quasi un tono sacrale a queste foto ormai divenute celebri, come quelle di adolescenti Beastie Boys che saltano sulle nostre facce, muovendo tutta l’immagine intorno a noi, bilanciati peró dalla statica lineare dell’arco alle loro spalle. Dall’energia intensa, senza peso nè gravitá delle evoluzioni degli angeli pronti a spiccare il volo su uno skate, al pugno alzato di HR dei Bad Brains. Dai muscoli tesi e saldi di Henry Rollins, alla composizione calibrata, degna di un teorico del formalismo di Jay Adams, in bilico frontalmente sul bordo di una piscina vuota o di Alva che ci mostra il dito medio ‘volando’ in una piscina di Beverly Hills temporaneamente ‘espropriata’: questo è Glen Friedman, pochi altri fra i suoi contemporanei in grado di calibrare con uguale compenetrazioni tutti questi piani di conoscenza, azione e tecnica.
Le foto dei concerti hardcore live rimangono le prove di forza maggiori della sua comunicatività, ma lo stesso impatto e intensità li troviamo nelle foto di skating: un’istantaneitá del reale costruita sui canoni classici, rendendo tattile e visiva l’energia e la radicalitá dell’appartenere a quelle categorie che vengono poi definite subculture dalle grandi correnti di massa e che da queste, e per questo, si distaccano mostrando la vera natura di un occhio libero e indipendente.

Friedman è forse un’idealista in questo scorcio di millennio – come lui stesso si definisce nel suo ultimo libro ‘The Idealist – In My Eyes – Twenty Years’– e l’idealista qui è chi non abbraccia certe logiche, chi è rimasto nonostante tutto, chi fa la differenza, chi non ha paura di dire, gridare, ‘Fottiti’ a ció che non gli piace e andare vanti per la sua strada. La mostra ‘Fuck You All’ presenta una selezione di opere tratte dai suoi libri-cult ‘Fuck Your Heroes’ e ‘Fuck You Too’ ed è già stata portata con successo a New York, Los Angeles, San Francisco, Tokyo, Londra e Sidney.

Glen E.Friedman vive e lavora attualmente a New York City.

Rita Luchetti Bartoli
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“Before we all forget how great those creative time were and could still be, I decided to put together a collection of my favourite (or at least most interesting) photographs that also best represent the ideals of my contemporaries.
This compilation is for those who asked, for those who may be interested in learning about this subculture and people, and for our hearts to see and remember what we are all born with and hope we never lose ­ the hardcore soul of true integrity”.
 
               Glen E. Friedman

GLEN E. FRIEDMAN is considered one of the most respected photographers of his generation. He started taking pictures in the mid-’70s, publishing his first photos in SkateBoarder Magazine when he was but 14 years old.
His first subjects were the young skaters of the California scene in DogTown (West Los Angeles), acknowledged birthplace of radical skating and where Friedman, a skater himself, hung out.  His photos are powerful proof of the still unequaled skating style of pioneers such as Jay Adams, Tony Alva, Stacy Peralta and Paul Costantineau.

To be skaters in those years was more than just practicing a sport – it was a radical way of life: “You could never find a more aggressive, arrogant, rowdy, perhaps ignorant bunch of people than my friends” declares Tony Alva in SkateBoarder Magazine in 1978 “that’s just the way we are, that’s the way we skateboard, that’s the way we talk.” These skaters were the antithesis of wholesome Little Leaguers – they had no limits, nothing could stop them, not the cops, not the ‘Keep Out-Private Property’ signs, not the fear of broken bones. They used no protection and thought of skating as “surfing on cement waves”. Not only a question of style, theirs was a radically subversive approach towards authority and life itself.  Friedman’s fascination with them was as innate as his need to catch and stop in a millisecond all the energy emanating from their fluid moves.
Both the skate scene and later the hard-core punk scene moved along similar lines: hard-core punk was a strongly anti-authoritarian movement and its music was an integral part of the everyday life of the DogTown skaters, Friedman included.

He identified strongly with the DIY (do it yourself) ideals of the bands that he photographed, self published,”My Rules” in 1982, a photozine in which his most significant music-related photos were, for the first time, collected together. It was a document unique in its genre, national coverage of the explosion of American hard-core punk from its beginning. Many of his photographs appeared on record covers of famous albums from that scene, seeing as how he shared the ideals of bands like Dead Kennedys, Minor Threat, Bad Brains and Black Flag, people who were also his friends. He was and still is Straight Edge, which, in comparison to certain nihilistic forms of punk, was a political and cultural movement, refusing the old “rebel” cliché of sex, drugs and rock’n’roll (it is strongly anti-drug/alcohol). Spontaneously born in Washington, it promoted a more conscious approach to life, an unswerving integrity, political and social activism.

Flanking the hard-core scene was the explosion of hip-hop that, from the mid-80’s, broke the confines of the ghetto to enter directly into the homes of middle class America.
Friedman recognized the same subversive attitude of hardcore punk in its highly-charged music and in the direct and forthright language of its MCs: the public image of bands like Run-DMC, Public Enemy, LL Cool J, Ice T or The Beastie Boys would be strongly linked to Friedman’s shots.

“Most of the people I’ve been shooting over the years all have the same attitude towards anyone that ever tried to tell ’em what to do: fuck you! That’s basically what it is. Skateboarders, punks, hip hop kids, a lot of people don’t realize they all really got a lot of things in common.” (from an interview to G.E.F. apperead in “One World”, spring 1995).
At about the same time Friedman was initially getting involved in hip-hop culture the label Def Jam was born and he became its unofficial photographer; Public Enemy – no surprise, considering their name – advocated an approach towards ‘the music as message’, as a vehicle for ideas which, in songs like ‘Fight the Power’, are explicitly seditious.
Friedman not only was the photographer at their first photo session, he also shot their first two album covers. He was also active in projects like the Lifer’s Group, a band made up of men serving out life sentences who cut an album in prison. The record cover, once again shot by Friedman, shows the face of Maxwell Melvins, prisoner #66064, reflected in a small mirror he holds out between the bars of his cell. It’s a photograph that can proudly be placed alongside that of Cartier-Bresson, taken in a Leesbury reformatory in 1975.

In “Fuck You Heroes”, the first book of Friedman’s work (1994), each and every photo represents an instant of life, an intense and vital movement, where those who dare shout FUCK YOU become heroes – better, they transform themselves into the  antithesis of traditional heroes by not asking permission, but rather by creating new paths that others will someday follow.  One could say the same about Friedman and his photographs.  He doesn’t bow down to market whims or work with a particular client in mind; a true free-lancer, he shoots only that which interests him, excites him, involves him. Self-taught, his style may be considered more “radical” than that of most contemporary photographers, he is his work, his photos affirm not only himself but his ideals.

Walter Benjamin, in his celebrated essay on photography, writes “It is a technique so precise that it manages to confer onto its products a magical value that a painting, for us, no longer possesses.  notwithstanding the ability of the photographer, notwithstanding the model’s attitude and calculations, the observer feels the irresistable need to look for that scintilla – perhaps almost imperceptible – that hic et nunc with which reality has illuminated the character of the image”. He eloquently describes how, at a certain point, photography had ‘discovered itself’, had figured out how to liberate itself from the dangerous clichés into which it had almost disappeared. He continues, “The nature which informs the photographic image is in fact different from the nature which informs the eye; different, above all, because in place of a consciously elaborated space, there exists an unconsciously elaborated space […] Only through the medium of photography has man discovered this unconscious optic or lens, as he has discovered, through psychoanalysis, his instinctive unconscious”.

Susan Sontag goes even farther: “the subsequent industrialization of camera technology only carried out a promise inherent in photography from its very beginning: to democratize all experiences by translating them into images”.  Photographs/photography, therefore, “photographs cannot create a moral position” ­ above all in our image-centered epoch ­ “but they can reinforce one and can help build a nascent one”.

This is what links the photos of Glen E. Friedman to the development of contemporary photography: having learned the lessons of the grand pioneers of the ‘New Vision’ that by now form the foundation of American photographic Modernism – an attraction to essential forms, cleanly framed and clearly focused ­ and driven by an honest desire to demystify and record the truth, he is a purist and does not tamper with photography’s ‘tricks of the trade’. Neither does he theorize around his work or about photography in general; he is drawn to where the energy is, and invites us to see with our own eyes that which he sees with his, filtering it all through a lens (often wide-angle) that enlarges our vision beyond its natural boundaries, imbuing his work with a level of emotional involvement that does not fit so simply into categories of aesthetic or experimental research.  That which is called the search for the beautiful in pictorial poses is, in Friedman’s case, fully anchored in reality.  His art is significant not only thanks to its sensorial beauty, but because it is undeniably authentic and unique.

“His work is the antithesis of social landscape documentation, glossy celebrity photography and editorial-driven magazine work. Others have tried to emulate the course of action that Friedman takes. But where those have come from a mass-media observational background, importing celebrity photographers, make-up artists, motor homes, light and generators, to photograph punks, skaters and rappers as models, G.E.F. travels alone, generally uses natural light and takes first person point-of-view shots of peers involved in activity or just hanging out in their own environment”. (C.R.Stecyk III, Fuck You Heroes, Burning Flags Press, 1994)

So let’s follow Friedman’s gaze, in chronological order: Jay Adams is the exhibit’s first photograph and one of Friedman’s first ever published. Even though he was only 14, his technique is just about perfect, his style already recognizable, his objective clear: to capture the dynamic force of action on film. His fascination with form doesn’t ever eclipse the composition itself, it remains evident even in his most off-the-cuff shots. The fluid movement of an adolescent on his skateboard seems to us the most classic expression of equilibrium — witness Paul Constantineau in the Kenter Canyon School yard or Kent Senatore in the Turning Point Ramp. His photo of Minor Threat in front of Dischord House is not only a composition of perfect symmetry, it is simple in its transparency, it tells us everything we need to know in a fraction of a second. It does not speak to us of another world, but of our world transfigured by Friedman’s talent, now made up of subtle glances and expressions, now crude and violent: the South Central Cartel who lie in wait for us, guns in the air; Henry Rollins almost 3-dimensional thanks to his palpable force and anger; Ice-T, silhouetted against an unnaturally bright sky saturated with color, doesn’t deign to look at us ­ it is his woman Darlene who fixes us icily with attitude to spare, the sawed-off shotgun in her hand a provocative foil for her beauty. The Caravaggio-esque light, or chiaroscuro, playing about Public Enemyon the cover of ‘Yo! Bum Rush the Show!’ gives like a sacral aura to these now-famous shots.

The Beasties as in-our-face adolescents seem to jump out from Friedman’s photo, the background kaleidoscopic, spinning around them and coming toward us, yet imperceptibly balanced by the arc which follows the line of their shoulders. From the weightless, gravity-less energy of skaters like angels poised for flight to the raised fist of the Bad Brain’s HR; from the tense, hard muscles of Henry Rollins to the formal composition of Jay Adams skating an empty pool to Tony Alva giving us the finger while flying through the air: this is Glen E. Friedman. His photos of hard-core shows are living proof of his forceful communicative capabilities, while the same impact and intensity are also evident in his skating photos; all are colored by the energy of the moment, an instant of real life constructed on classic canons rendered tactile and visible, marginalized by the masses demonstrating the true nature of a free and independent vision.

So few of his contemporaries have been able to tie it all up as seamlessly as Friedman has, with an unerring eye, masterful technique, and the ineffable and uncanny gift of prescience: to just ‘know’ when to take the picture.

Maybe Friedman is the idealist he professes to be in his new book “The Idealist – In My Eyes Twenty Years” and here ‘idealist’ is one who doesn’t embrace certain logic, who is still around, despite everything, who makes a difference, who isn’t afraid to say, to yell ‘Fuck you!’ when necessary, then continue down their path. The exhibit ‘Fuck You All’ presents a selection of work from cult books ‘Fuck You Heroes’ and ‘Fuck You Too’.  It’s been successfully exhibited in Los Angeles, New York,  San Francisco, Tokyo, London and Sydney.

Glen E. Friedman lives in New York City.